Trombosi in pazienti COVID-19: cause e farmaci in sperimentazione

A cura di Elena Battisti

Revisione di Davide Di Tonno

Il SARS-CoV-2 invade le cellule umane attraverso il legame con il recettore ACE II, l’enzima convertitore dell’angiotensina, espresso in maniera preponderante a livello degli alveoli polmonari, ma anche in altri organi quali cuore, sistema nervoso, intestino, reni, vasi sanguigni e muscoli. L’espressione ubiquitaria di tale recettore potrebbe spiegare la disfunzione multiorgano osservata in pazienti COVID-19. In particolare, oltre alla sindrome da distress respiratorio acuto (ARDS) caratterizzante i casi severi, è ormai chiara la presenza di un alto tasso di fenomeni tromboembolici in pazienti affetti da COVID-19, spesso con conseguenze letali.

Le cause dei fenomeni trombotici

La causa principale dell’insorgenza dei fenomeni trombotici sembra essere legata al danno cellulare causato dall’ingresso del virus e dall’abnorme risposta infiammatoria dell’organismo, che induce quella che viene ormai definita “tempesta citochinica”. Brevemente, la liberazione di citochine proinfiammatorie da parte degli alveoli polmonari danneggiati dal virus agisce a livello dell’endotelio dei vasi sanguigni circostanti provocando un aumento dell’espressione del fattore di Von Willebrand e di molecole di adesione quali ICAM-1, P-selectina ed E-selectina, con conseguente reclutamento piastrinico e leucocitario e successiva attivazione del complemento. I neutrofili così reclutati producono le cosiddette “trappole extracellulari”, dei filamenti di materiale nucleare estrusi nel vaso sanguigno che contribuiscono alla formazione dei trombi. L’attivazione del complemento potenzia invece l’infiammazione endoteliale inducendo tale tessuto a produrre ulteriori citochine infiammatorie quali IL-1, IL-6 ed IL-8. Inoltre, il legame di SARS-CoV-2 all’enzima ACE II a livello dell’endotelio ne riduce l’espressione, provocando un aumento dei livelli di angiotensina II, un potente vasocostrittore in grado di aumentare l’ipercoagulabilità. Nell’insieme, questi meccanismi risultano in un’eccessiva produzione di trombina culminando nella formazione di un coagulo di fibrina.

Uno dei primi e più comuni rilievi di laboratorio osservati nei pazienti COVID-19 ospedalizzati è un aumento dei livelli del D-dimero, un prodotto di degradazione della fibrina. Numerosi studi hanno osservato l’efficacia del valore di D-dimero nel predire l’evoluzione della malattia verso una quadro clinico peggiore, anche se osservazioni più recenti sembrano in contrasto con tali risultati. Altri marcatori di coagulazione analizzati, quali il tempo necessario alla formazione di un coagulo (tempo di protrombina), la conta piastrinica e la presenza di anticorpi antifosfolipidi, non sembrano avere utilità a livello prognostico.

Diversi studi hanno osservato la presenza di coagulazione disseminata intravascolare (DIC) in pazienti COVID-19, con una prevalenza maggiore negli individui deceduti rispetto ai guariti. L’incidenza cumulativa riporta invece trombosi venosa (VTE) nel 25-49% dei pazienti COVID-19 affetti da malattia severa, con embolie polmonari quali complicanze trombotiche più frequenti. È inoltre interessante notare che, anche in caso di utilizzo di profilassi antitrombotica, il rischio di VTE in pazienti gravi rimane elevato, e che la diagnosi di complicanze trombotiche aumenta di 5 volte il rischio di morte in tali pazienti. Oltre alla VTE, sono sempre più frequenti i report di un maggior rischio di tromboembolismo arterioso in pazienti COVID-19, con un tasso di incidenza di ictus ischemico acuto variabile dal 3 al 5% dei pazienti ospedalizzati, soprattutto in pazienti giovani e senza fattori di rischio cardiovascolari. Inoltre, l’infarto acuto del miocardio complica frequentemente il decorso nei pazienti COVID-19 con malattia severa, presentandosi in circa il 20% degli ospedalizzati con prognosi infausta. In aggiunta alle complicanze dei grandi vasi, è stata riportata una forte associazione tra COVID-19 e trombosi microvascolare, che sembra giocare un ruolo fondamentale nell’ARDS e nell’insufficienza respiratoria associata ai casi di polmonite da SARS-CoV-2. In particolare, indagini autoptiche hanno evidenziato come in polmoni di pazienti deceduti per ARDS si riscontrino trombi nell’80-100% dei casi.

La grande incidenza di fenomeni tromboembolici in pazienti COVID-19 ha portato molti ospedali ad istituire regimi di profilassi per tale condizione ma, non essendo presenti linee guida specifiche per COVID-19, le terapie si sono basate su protocolli piuttosto eterogenei. Le eparine sono anticoagulanti comunemente usate nella pratica clinica perché in grado di potenziare l’effetto dell’antitrombina, un inibitore fisiologico della coagulazione. Possiedono inoltre un’azione antinfiammatoria e sembrano apportare un beneficio in contesti di infezione virale, limitando il legame tra cellule eucariote e SARS-CoV-2 e la sua capacità di ingresso nella cellula. Uno studio preliminare condotto nella città di Wuhan, in Cina, ha osservato una ridotta mortalità in pazienti con COVID-19 severo ed elevati livelli di D-dimero o presenza di coagulopatia indotta da sepsi trattati con eparina a basso peso molecolare o con eparina non frazionata. Anche la dose di anticoagulante è stata investigata, da cui risulta una minore frequenza di VTE e di mortalità in pazienti COVID-19 trattati con dosi terapeutiche di eparina rispetto a pazienti non trattati o trattati con dosi profilattiche di anticoagulante, quindi inferiori. Studi successivi si sono concentrati sull’utilizzo di altre molecole, quali la categoria degli anticoagulanti orali di nuova generazione (NAO). In particolare, uno studio osservazionale retrospettivo ha dimostrato un’efficacia simile dell’apixaban (NAO) rispetto all’enoxaparina nella riduzione della mortalità in pazienti COVID-19, con la medesima sicurezza.

Gli studi clinici in corso

Attualmente nel mondo sono all’attivo più di 80 trial clinici che vedono l’utilizzo di anticoagulanti come farmaco sperimentale. Tra questi, lo studio FREEDOM COVID è uno studio no-profit di fase IV randomizzato, interventistico e in aperto, che mira ad arruolare un totale di 3600 soggetti. Lo studio vuole comparare l’efficacia e la sicurezza di enoxaparina a due diverse dosi – profilattica e terapeutica – con apixaban, dividendo i pazienti in un rapporto 1:1:1 nei 3 diversi bracci di trattamento. In particolare, lo studio è mirato su pazienti COVID-19 adulti ed ospedalizzati, ma che non richiedano ventilazione meccanica o assistenza medica a livello di terapia intensiva. Ulteriori criteri di esclusione sono l’utilizzo concomitante di terapia anticoagulante con altri farmaci, la presenza di fattori di rischio per emorragie ed ipersensibilità all’eparina. Lo studio prevede di ottenere i primi risultati entro la fine del 2021.  

Elena Battisti

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Sono una biotecnologa medica con un dottorato di ricerca in scienze veterinarie. Dopo alcuni anni passati nella ricerca pre-clinica occupandomi di malattie infettive, mi sono iscritta al Corso “Missione CRA” per dare una svolta alla mia carriera e fare il salto nella ricerca clinica, ed attualmente sono study coordinator presso un ospedale di Torino.