Le determinanti del basso tasso di recruitment negli studi clinici

A cura di Maria Giovanna de Marino

Revisione di Davide Di Tonno

Una delle problematiche più controverse durante la gestione dei clinical trial è la quota effettiva di partecipanti che vengono arruolati. Nonostante la ricerca sia cruciale per un miglioramento della sanità e dello status di salute del singolo, in molti casi le percentuali di reclutamento restano molto basse.

Il principale effetto di un aspetto che può a prima vista apparire secondario, in realtà, nasconde possibili conseguenze di grossa rilevanza. Una percentuale non ottimale di reclutamento può infatti inficiare il potere statistico di una ricerca, rendendo lo studio inconcludente e avendo un effetto a valanga che si traduce in un aumento dei costi e in un ritardo nella conduzione della sperimentazione stessa.

In una review pubblicata sulla rivista scientifica BMC del 2020, Sheridan e i suoi collaboratori hanno cercato di investigare quali fossero le principali determinanti della tendenza al basso recruitment.

Attraverso una combinazione di modelli matematici, Sheridan e il suo team hanno selezionato circa 26 pubblicazioni scientifiche dell’ultima decade (1999-2019) grazie alle quali hanno potuto effettuare una valutazione qualitativa e identificare facilitatori e potenziali barriere al reclutamento nei trial.

Facilitatori

Il facilitatore più comunemente condiviso è legato alla percezione dei pazienti che la partecipazione ad uno studio clinico possa fornirgli un beneficio personale, come un benefit puramente terapeutico e/o un monitoraggio lo stato di salute più accurato e costante (ndr molti studi clinici infatti prevedono un numero di visite mediche molto superiore a quelle previste dalla normale pratica clinica).

Al secondo posto c’è l’altruismo dei partecipanti sia in favore del potenziale che la ricerca clinica può rappresentare per il miglioramento di una condizione patologica specifica, sia nella pura accezione di aiutare il prossimo affetto da una patologia analoga. Ulteriore elemento d’aiuto è il senso di fiducia che molti pazienti sviluppano verso i loro medici, ritenendo che queste figure si prodighino sempre per il loro meglio e nel loro interesse. In aggiunta, sembrerebbe che l’interesse finanziario possa anch’esso portare un beneficio, anche se in minima parte. Questo facilitatore però non ha applicazione universale; infatti, in conformità con la Direttiva 2001/20/CE sugli studi clinici e il Regolamento Europeo (536/2014), “nessuna interferenza indebita, comprese quelle di natura finanziaria, deve essere esercitata sulle persone affinché partecipino allo studio clinico”, pertanto tale facilitatore potrebbe non avere riscontro nella realtà degli studi clinici italiani.

Barriere

Guardando il rovescio della medaglia, la principale barriera è la paura dovuta alla percezione di rischi e di possibili eventi avversi che risulta a sua volta correlata alla severità della patologia; infatti, pazienti con diagnosi particolarmente gravi o terminali sono molto più tolleranti su questo punto, soprattutto per la carenza di possibilità terapeutiche note alternative. A questa, si aggiunge la poca fiducia dimostrata in generale per la ricerca clinica e il timore di una possibile violazione di confidenzialità e privacy. Questi elementi risultano essere maggiormente condizionanti in pazienti appartenenti a minoranze etniche.

A scoraggiare maggiormente la partecipazione agli studi clinici è la paura di essere inseriti nel gruppo di trattamento di controllo.

Per alcune condizione patologiche si manifesta anche il rischio di un potenziale stigma (soprattutto per patologie quali l’HIV o patologie mentali) che fa sentire i pazienti più vulnerabili e quindi meno predisposti al coinvolgimento, vivendo quest’ultimo come una minaccia e spingendoli all’autoconservazione.

In maniera minore influiscono:

  • Difficoltà logistiche (maggior numero di appuntamenti medici, sottoporsi a pratiche aggiuntive);
  • perdita di tempo;
  • necessità di spostarsi spesso verso i centri sperimentali se sono lontani dalle abitazioni con ovvio  impatto sul tempo e sui costi.

Le preoccupazioni indicate molto spesso sono frutto di una scarsa consapevolezza, conoscenza e comprensione dello studio per il quale si richiede il consenso, che possono quindi confondere e disincentivare i pazienti.

Pattern comuni tra facilitatori e barriere

Nonostante barriere e facilitatori sembrano muoversi su componenti comuni come fattori cognitivi, emotivi, sociali, questioni pratiche/logistiche ed elementi strumentali, la quantità e la varietà delle barriere è nettamente superiore a quella dei facilitatori.

La possibilità però di individuare uno spazio per cercare di contrastare e risolvere queste barriere sembra fortemente limitata.

Studi che non prevedono la randomizzazione in un braccio placebo (open trial design) potrebbero aiutare a mitigare i timori dei pazienti, ma si scontrerebbero con il rischio di perdere potere statistico e valenza scientifica, tipica di modelli di trial più complessi e strutturati che ad oggi sono anche tra i più comuni.

Conclusioni

Lo studio condotto da Sheridan e i suoi collaboratori si pone quindi l’obiettivo di fare da lente di ingrandimento sulle dinamiche che si articolano e giustificano il perché di un basso engagement del contesto dei trial. Capire infatti i condizionamenti che ostacolano la buona performance di uno studio clinico è il primo passo per poter identificare soluzioni.

Biografia

PhD in medicina sperimentale e traslazionale, con la diffusione della pandemia mi sono avvicinata e appassionata alla ricerca clinica. La partecipazione al corso MissioneCRA mi ha permesso di immergermi in questo nuovo ambito lavorativo e di muovere i primi passi in ricerca clinica come Clinical Research Coordinator. Oggi sono CRA I presso Icon plc – Docs.