A cura di Jacopo Lidonnici
Revisione di Davide Di Tonno
Introduzione
Durante quest’ultimo anno tutti noi abbiamo imparato a fare i conti con la pandemia COVID-19 causata dal virus SARS-COV-2. Le nostre attenzioni e preoccupazioni sono inevitabilmente andate all’emergente problema sanitario, quasi come se avessimo riscoperto i virus e le grandi epidemie; eppure vi è un’altra pandemia causata da un altro tipo di virus che ci accompagna da ormai quarant’anni: l’AIDS.
La sindrome da immunodeficienza acquisita (AIDS) è una malattia causata dal virus HIV che infetta le cellule bianche del sangue determinando un lento deperimento del sistema immunitario. HIV si trasmette attraverso le secrezioni biologiche come sangue, sperma e latte materno, infatti la principale via di trasmissione del virus è rappresentata dai rapporti sessuali non protetti, ma non si possono trascurare la trasmissione madre-figlio e la trasmissione tramite l’inoculo di sangue da aghi infetti.
Nel corso di questi quarant’anni l’AIDS è stata oggetto di forti controversie scientifiche, legali e sociali. Molto è stato fatto e molto ancora c’è da fare, perché sebbene questa pandemia si sia attenuata nei paesi più industrializzati la sua presa è ancora molto forte sui paesi in via di sviluppo.

Storia dell’AIDS
Nel 1981 l’immunologo Michael Gottlieb ed alcuni colleghi segnalarono i primi casi di giovani omosessuali affetti da una rara infezione polmonare da Pneumocystis carinii (oggi noto come Pneumocystis jirovecii), un ascomiceto, all’epoca considerato un protozoo, che solitamente colpisce solo pazienti dal sistema immunitario indebolito. In particolare i casi di cinque omosessuali bianchi sulla trentina che presentavano tutti polmonite da Pneumocystis carinii (PCP), un’infezione da citomegalovirus (CMV) e candida nella mucosa orale furono riportati il 5 giugno sul Morbidity and Mortality Weekly Report (MMWR), ovvero il bollettino settimanale del Center for Disease Control (CDC) statunitense.
La notizia venne ripresa e rilanciata dalle agenzie di stampa e dai quotidiani. In pochi giorni, il CDC ricevette decine segnalazioni di casi simili di PCP ed altre infezioni opportunistiche tra uomini gay. Nello stesso periodo il dermatologo Alvin Friedman-Kien segnalò alcuni casi di un raro tumore vascolare, anch’esso associato all’immunodepressione, il sarcoma di Kaposi (KS), tra giovani gay. Presto si capì che PCP e KS nei giovani omosessuali appartenevano ad uno stesso quadro clinico, che in un primo momento venne indicato come GRID (Gay-Related Immune Deficiency). Termini come “il cancro dei gay” si diffusero nel lessico comune, contribuendo a radicare nell’opinione pubblica l’idea, al tempo condivisa anche da molti ricercatori, che questa nuova malattia fosse circoscritta ai soli ambienti omosessuali. Tuttavia oltre ad alcuni casi di persone che si dichiaravano eterosessuali, furono riscontrati anche casi pediatrici di PCP associata ad una grave immunodeficienza. I bambini che presentavano gli stessi sintomi dei giovani gay erano figli di donne tossicodipendenti o dedite alla prostituzione. Sul finire del 1981 fu riportato il primo caso europeo (in Inghilterra) e dunque la misteriosa malattia aveva valicato i confini degli Stati Uniti. Nel 1982 la malattia fu ribattezzata sindrome da immunodeficienza acquisita (AIDS,Acquired ImmunoDeficiency Syndrome) e per la prima volta i sintomi di questo disordine vennero messi in relazione ad un possibile agente a trasmissione sessuale. Ben presto furono documentati i primi casi di donne che avevano sviluppato immunodeficienza dopo aver avuto rapporti con uomini malati di AIDS.

L’anno seguente il CDC osservò che la maggior parte dei casi di AIDS si era verificata tra uomini gay con molteplici partner sessuali, tossicodipendenti, haitiani, ed emofilici. Suggerì, dunque, che l’AIDS potesse essere causata da un agente infettivo trasmesso per via sessuale o attraverso l’esposizione a sangue o emoderivati. Sempre nel 1983, Françoise Barré-Sinoussi e Luc Montagnier isolarono dalle cellule in coltura di un paziente omosessuale con linfonodi ingrossati, privo però di alcun sintomo di AIDS, un nuovo retrovirus chiamato LAV (Lymphadenopathy Associated Virus). Un anno più tardi anche Robert “Bob” Gallo dichiarò d’aver isolato dalle cellule di pazienti AIDS un nuovo virus, da lui ribattezzato HTLV-III (Human T-Lymphotropic Virus, type 3). Ne scaturì un’aspra diatriba legale e scientifica tra Luc Montagnier dell’Institut Pasteur di Parigi e Bob Gallo del National Cancer Institute di Bethesda per contendersi la paternità della scoperta. Nel 1985 si comprese che LAV e HTLV-III erano in realtà lo stesso virus e per evitare ulteriori confusioni, nel 1986, il comitato internazionale per la tassonomia ribattezzò il virus LAV/HTLV-III in HIV (Human Immunodeficiency Virus).
Il 19 marzo 1987 la Food and Drug Administration (FDA) approvò il primo farmaco contro HIV, la Zidovudina o Azidotimidina (AZT). Sebbene AZT fosse stato inizialmente sviluppato per trattare il cancro, si rivelò un buon inibitore nucleosidico della trascrittasi inversa del virus (NRTI, Nucleoside Reverse Transcriptase Inhibitor), l’enzima che converte l’RNA virale in una molecola di DNA pronta a integrarsi nel genoma delle cellule ospiti. Inoltre, FDA emanò regolamenti per agevolare l’accesso ai farmaci più promettenti non ancora approvati dall’agenzia, accelerandone così l’approvazione di circa 2-3 anni.
Ad ogni modo, l’approvazione di AZT segna l’inizio della terapia antiretrovirale e rappresenta la prima arma farmacologica a disposizione dei clinici per combattere l’epidemia di AIDS. Ciò nonostante, l’elevato tasso di mutazione di HIV faceva sì che i pazienti sviluppassero rapidamente resistenza al trattamento. Per ovviare a tale problema ed in mancanza di alternative terapeutiche i medici tentavano di aumentarne il dosaggio, causando spesso reazioni avverse nei pazienti.
Per diversi anni non vi furono alternative terapeutiche all’AZT, ma a partire dal 1991, anno d’approvazione della Didanosina (ddI), anch’essa appartenente alla classe degli inibitori della trascrittasi inversa, iniziarono ad entrare in commercio nuovi farmaci antiretrovirali. Già dall’anno successivo si iniziò a sperimentare una duplice terapia ART (AntiRetroviral Therapy), ovvero la somministrazione combinata di due farmaci, anche se con scarsi risultati. Fu solo con l’approvazione di una nuova classe di farmaci che si riuscì a fare il salto di qualità nelle cure dell’AIDS. Infatti nel 1995 fu approvato il Saquinavir, capostipite della classe degli inibitori della proteasi (PI, Protease Inhibitor), un enzima necessario per generare il capside virale. L’utilizzo di Saquinavir in combinazione con altri due NRTI diede vita ad una sperimentazione che ben presto generò i frutti sperati. Questa terapia tripla chiamata HAART (Highly Active AntiRetroviral Therapy), che prevede la somministrazione combinata di tre farmaci appartenenti ad almeno due classi diverse, riuscì ad abbattere il tasso di mortalità dei pazienti con AIDS e dal 1997 divenne il nuovo standard terapeutico per il trattamento dell’HIV. Se fino ad allora la diagnosi di sieropositività ed a maggior ragione di AIDS rappresentavano una condanna a morte e all’emarginazione sociale, grazie alla HAART l’infezione da HIV divenne una patologia cronica. A quella data, tuttavia, le Nazioni Unite stimavano che nel mondo vi fossero circa 30 milioni di infetti da HIV.

Nel corso degli anni la gamma di prodotti terapeutici disponibili per il trattamento di HIV è andata via via ampliandosi, arricchendosi di nuove classi farmacologiche come gli NNRTI (Non-Nucleoside Reverse Transcriptase Inhibitor) approvati nel 1996, gli inibitori dell’entrata (EI, Entry Inhibitor) commercializzati dal 2003 e gli inibitori dell’integrasi (INI, Integrase Inhibitor) in uso nel 2007. La somministrazione combinata di più farmaci aventi meccanismi d’azione differenti permette di controllare l’infezione da HIV mantenendo il virus latente per decenni, in modo da prevenire la conclamazione della malattia. Tuttavia in alcune cellule a lunga emivita, come i linfociti T della memoria, l’HIV si integra nel genoma e se l’attività farmacologica viene meno si riattiva. Perciò i farmaci antiretrovirali devono essere assunti per tutta la vita del paziente sieropositivo. Tutto ciò ha permesso di controllare l’epidemia di AIDS nei paesi più industrializzati, ma nonostante gli sforzi fatti, i costi dei farmaci rimangono troppo gravosi per i paesi più poveri del mondo, dove HIV si è ampiamente diffuso, ponendo così un problema di accesso alle terapie.
Nell’ultimo decennio è stata avanzata una nuova strategia terapeutica, la cosiddetta Pre-Exposure Prophylaxis (PrEP), ovvero la somministrazione di medicinali capaci di ridurre il rischio d’infezione in soggetti sani che adottino comportamenti a rischio. Il primo farmaco approvato dall’FDA per tale scopo è Truvada, entrato in commercio nel luglio 2012. A fine 2018 uno studio australiano condotto su una popolazione di soggetti a rischio che aderivano alla PrEP ha permesso si dimostrare l’efficacia della profilassi pre-esposizione a livello di popolazione. Ciò fa ben sperare che la PrEP possa essere usata su larga scala per abbattere i nuovi contagi.
Conclusioni
Oggi, a quarant’anni dai primi casi diagnosticati, si stima che l’AIDS abbia mietuto più di 33 milioni di vite e che ci siano circa 38 milioni di sieropositivi nel mondo. Nel solo 2019 è stato registrato un incremento di 1,7 milioni di nuovi infetti da HIV. Con numeri così elevati si capisce bene perché ancora oggi, in piena pandemia COVID-19, abbia senso continuare a tenere i riflettori puntati su AIDS. Sebbene il fuoco dell’epidemia sia stato spento nei paesi occidentali, le braci dell’infezione ancora ardono, pronte a far scoppiare nuovi focolai.
Jacopo Lidonnici
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Neolaureato in Genomica Funzionale presso l’Università di Trieste. Credo fermamente nel valore della scienza come mezzo per migliorare la vita di tutti noi. Siccome mi affascina il mondo della ricerca clinica e dello sviluppo farmacologico mi sono iscritto al corso di alta formazione “Missione CRA Online”.